mercoledì 17 aprile 2013

Paramore--Paramore, recensione. "Some of us have to grow up sometimes, and so, if I have to, I'm gonna leave you behind"

Paramore--Paramore
voto *** e 1/2


Ho voluto inserire nel titolo questo verse del brano Grow Up, perché emblematico della nuova produzione della band pop-punk americana Paramore.
Dal 2009, anno di pubblicazione del loro ultimo album - l'acclamatissimo dai fan e premiatissimo in quanto a vendite, Brand New Eyes - non si erano più fatti sentire con nulla di nuovo. Solo qualche live sporadico, qualche versione acustica di vecchi brani e singoli inediti qua e là per quietare le masse scalpitanti di teenagers affranti. Separatisi e poi riformatisi, sopravvissuti al ciclone del successo, cresciuti ma non troppo e con una formazione di nuovo ben salda, sono tornati per farci scatenare ancora una volta.

Che il loro intento sia quello di fare capire agli ascoltatori che sono cresciuti e sono riusciti a passare sopra alla scissione del gruppo, è chiaro fin dal primo brano, Fast In My Car, dove cercano disperatamente di prendere le distanze da quella che è stata la loro produzione fino ad ora. Nel caso fosse proprio così e non un mio viaggio: epic fail, devo dire. Il brano nel complesso è piacevolissimo e dal ritmo incalzante ma non fa così tanto la differenza come vorrebbe la band per quanto siano apprezzabili i riferimenti nel testo ad album del passato come Riot, come a voler sottolineare il passo avanti fatto.
Segue l'ormai noto singolo Now, dalle tematiche un po' più mature e dalla chitarre un po' più incazzose, ma dalla ritmica ri-trita e dalla produzione un po' piatta.
Grow Up, eccola alla posizione numero tre a fare da spartiacque: nulla di strepitoso - lineare come solo un brano pop-punk può essere (!) - ma molto piacevole soprattutto perché da qui in poi comincia a risaltare il miglioramento fatto dalla voce di Haley Williams che diventa sempre più brava ogni anno che passa.
Alla numero quattro troviamo una canzone molto "paramoriana"; una Daydreaming ambientata nella Los Angeles in cui la band si è trasferita da qualche tempo a questa parte e da cui ha ricominciato da zero. Molto simbolico, devo dire.
Cominciano le sorprese con Interlude: Moving On... un ukulele?! Ma sono diventata sorda io oppure si tratta veramente di uno strumento totalmente inedito per questa band? Scherzi a parte, questo piccolo intermezzo che poi proseguirà con delle ideoligiche parti II e III (Holiday e I'm Not Angry Anymore), non hanno un senso logico particolare. La loro presenza è giustificata dal fatto che fanno raggiungere all'intero LP quota ben 17 inediti, e spezzano un po' il ritmo generale dell'opera che tra alti e bassi caracolla lentamente verso il finale. Al momento li trovo piacevoli e non fastidiosi o inutili, la loro funzione è puramente di intrattenimento e non hanno la pretesa di essere considerate delle punte di diamante; raccontano la storia di una persona qualunque - uno chiunque di noi - che passa attraverso le varie fasi della vita, descritte in pochi minuti di voce e ukulele.
Con Ain't It Fun si comincia a carburare. Brano grezzo e ancora immaturo ma è già un grande passo avanti rispetto a quello che i Paramore sono stati fino a ieri; giro di basso funky messo ben in evidenza davanti alla chitarra e finale con coro gospel da u-r-l-o. L'unica pecca sono le parti synth che risultano un po' troppo piatte e bidimensionali.
Part II si presenta come la ripresa del vecchio, con rielaborazione in nuovo: una sorta di auto-celebrazione e celebrazione ai fan che potrebbero riconoscere il brano originale solo se assidui ascoltatori (per la cronaca, trattasi della rielaborazione del brano Let The Flame Begin, comparso sul secondo full length della band, "Riot". Non è stato nemmeno un singolo e non ne esiste una versione "lyrics video").
Molto carina invece, Last Hope che trovo anche molto diversa dalle ballad proposte in passato dalla band. L'andamento è molto lineare e melodico, decisamente catchy il ritornello, con chiusura corale che più adatta di così non si poteva. Ottima.
Uscito poco prima dell'LP, abbiamo il singolo Still Into You; anche qui nelle lyrics troviamo riferimenti ai vecchi lavori della band - ditemi che non li vedo solo io - e in sé per sé il brano non è nulla di originale ma la voce della Williams è cristallina e potente e risolleva qualsiasi brano che sia un ciofecata mondiale o meno.
Anklebiters, è proprio punk - sia per ritmo che durata - e caricata a molla per esplodervi nelle cuffie e, ci voleva proprio dopo esserci rilassati con i due brani precedenti. Proof, comincia bene e poi si perde un po' nell'anonimato forse proprio perché sta in coda a un proiettile del calibro di Anklebiters.
Hate To See Your Heart Break è uno di quei pezzi così ruffiani e tutto sviolinate che farebbe piangere anche il fan più accanito di David Guetta. Credo si tratti di uno di quei brani puramente cinematografici, perfetti per essere scelti come parte dell'OST di un qualche film comico-romantico. Ma forse volo troppo di fantasia.
A seguire troviamo una chicca, molto meglio del brano precedente, (One Of Those) Crazy Girls; intro impeccabile, con una sessione ritmica delicata ma perfettamente in tema e intelligente utilizzo di archi e cori che fanno da sfondo perfetto per la storia d'amore messa in scena. Divertentissima.
Be Alone è un altro pezzo veramente "paramoriano", il che non vuole essere una definizione ma solo un dato di fatto... cioè quelle sonorità già presenti a livello embrionale nei precedenti lavori che qui vengono tirate fuori con più decisione e rielaborate nel nuovo gusto musicale della band. Il sound è quello del primissimo "All We Know Is Falling", ma reso più adulto e adattato a un pubblico che può oscillare dai neofiti teenagers ad ascoltatori ora più maturi che seguono la band dagli esordi.
L'album si chiude con il pezzone Future: al primo ascolto è stato subito amore.
Giuro che se il titolo vuole essere foriero della strada che i Paramore vorranno musicalmente percorrere in futuro, ne sono più che felice e li seguirò finché avrò cent'anni. Cattivone, nudo e crudo. Otto minuti di apprezzabile e sporco rock e io sono soddisfatta perché anche se abbiamo fatto un po' di fatica siamo giunti a giusta conclusione di un album sperimentale - a causa di un sound ancora da definire e che non ha trovato una compattezza ideologica il che lo rende frammentario e ancora un po' incoerente - e di passaggio.
Le lyrics nel complesso sono ancora acerbe, i Paramore non hanno ancora raggiunto quella maturità compostiva che permetterebbe loro di fare il passo avanti che tanto agognano.
Sono ancora lì, a metà via tra l'università e il mondo del lavoro, tanto per fare un paragone, ma il futuro fa ben sperare:

"So, just think of the future,
Think of a new life.
And don't get lost in the memories,
Keep your eyes on a new prize."


Future, Paramore.


Hope Valentine.




venerdì 12 aprile 2013

"Specter at The Feast" vs. "Comedown Machine" - questa volta, il mash-up lo faccio io!

Lasciamo stare i voti, almeno per oggi. No dai, almeno per qualche riga.
Preciso come sempre che la recensione che segue non vuole essere seria o professionale; cioè, un po' di verità c'è ma mentre la pensavo ho riso talmente tanto che non può che venirne fuori l'ennesima cavolata.
Ma partiamo con ordine...

Dopo dieci anni di forzati scontri voluti dalle maggiori testate musicali del mondo, per uno scherzo del destino - forse voluto, ma non è chiaro da chi - The Strokes e Black Rebel Motorcycle Club si scontrano di nuovo sul piano di singoli, nuove uscite e LP recensiti malissimo o osannati da entrambe le parti.
Per chi non fosse informato dei fatti, più di dieci anni fa queste due band pioniere del rock indipendente venivano messe a confronto, entrambe novelle del panorama musicale ed entrambe innovative in un periodo stagnante a livello di novità.
Perfino la seconda uscita di entrambi i gruppi coincise temporalmente ma fu sempre più chiaro che la band capitanata da Casablancas e quella da Levon Been si riproponevano generi completamente diversi. Dopodiché le uscite e i generi proposti furono così distanti che a metterli in competizione non ci si pensò più.
Circa.
E' a questo punto che si arriva all'anno 2013 corrente ed entrambe le band si riaffacciano con una nuova uscita nello stesso mese e i primi singoli addirittura lanciati o annunciati nello stesso periodo. E pensa un po', entrambi hanno messo in streaming i loro album con qualche giorno di anticipo sulla pubblicazione "fisica" del loro ultime fatiche.
Ma per Luilassù, ci pigliate per il deretano? Finalmente eravamo riusciti a dimenticare vecchi attriti e stantie diatribe per poterci finalmente concentrare sulla vostra musica, e ora ci confondete le idee un'altra volta?!
Questa volta il dubbio è bello grosso; entrambi usciti in Marzo, copertine che fai fatica a distinguerle non possono essere una comune COINCIDENZA.
Ma le similitudini finiscono lì, ve lo garantisco.
E uno dei due album, l'ho preferito più dell'altro e in questa sede rivelerò quale..."Chissene", direte voi.
Avete anche ragione.


"Specter At The Feast"-- Black Rebel Motorcycle Club

Oddio sono tornati. Oddio, cosa avranno in serbo per noi ascoltatoruncoli medi? Un ritorno agli splendori del passato di BRMC? Qualcosa di folk-bluesy come fu l'azzeccato Howl?
Alla fine è tutto e niente. Questo Specter At The Feast è un pasticcio melenso, denso e lento della stessa minestra riscaldata da più di dieci anni di assiduo ascolto.
Chi conosce bene questa band, chi li ascolta fin dagli inizi non potrà mancare di riconoscere alcune sonorità già proposte in vecchi lavori (giuro che l'introduzione di Sometimes The Light mi ricorda in qualche modo l'intro di All You Do Is Talk), o al contrario non riconoscerne affatto; come non sentire la mancanza di pezzi energici dal cipiglio "spacco-tutto-e-poi-passo-sopra-alle-macerie-e-le-calpesto" di una Berlin, o quella follia malinconica e cantautorale che permeava sì tutto Howl, ma fuoriusciva da pezzi come Fault LineAin't no Easy Way?
Tutto sommato non è un lavoro fatto male, anzi è curato nei dettagli e nelle sfumature ma manca di quel quid, che lo avrebbe potuto eleggere ad album indie dell'anno. Perché i Black Rebel, le carte in regola ce le hanno ma sfruttano sempre la stessa formula senza aggiungere o togliere niente. Nemmeno l'ingresso nella formazione della nuova batterista Leah Shapiro  - presente già nel precedente Beat The Devil 's Tatoo - ha modificato il pacchetto e l'offerta: le solite ritmiche, i soliti schemi melodici, il solito Robert Levon Been che nulla varia nel suo cantato malinconico e dalla bassa intonazione senza troppo sbalzi.
Tirando le somme, si tratta di un lavoro piacevole in cui spiccano brani meglio riusciti di altri, una su tutte la cover di Let The Day Begin brano originale dei The Call, band del defunto padre di Robert, e quella cupa Some Kind of Ghost che sembra la colonna sonora perfetta per un rito sciamanico (non scherzo, è ipnotizzante!). Un lavoro che però necessita di più e più ascolti prima che il senso generale divenga chiaro e si riesca a distinguere una traccia dall'altra. Specie il trittico Hate The Taste - Rival - Teenage Desease: ah, ok carichi come pezzi peccato che a un primo ascolto paiano tutti e tre uguali vista la poca fantasia con cui sono stati prodotti.
Per carità i BRMC, restano i BRMC e per qualsiasi sbarbatello che voglia avvicinarsi al mondo della musica indipendente, sono un ottimo inizio. L'inizio sì, ma non l'approfondimento e la continuazione dell'argomento a meno di non risalire ai loro vecchi LP, ben più validi.

Ascolti consigliati; Let The Day Begin, Returning, Some Kind of Ghost, Sell It.




"Comedown Machine"-- The Strokes

Oh ca**o! Non si sono sciolti gli Strokes! Oh, ma porca ***!! Sono usciti con un nuovo album con meno di mille anni di distanza dal precedente?!
Ehi, ma perché non hanno pubblicato la solita copertina da psycho che hanno sempre proposto fin da inizio carriera? Questa è semplice... lineare... wow, sono rapita!
Va bene, tornando a fare la persona seria, quest'album mi è proprio piaciuto.
Mi piace sì, cavoli.
E' fresco, veloce, innovativo per il genere indie - prosegue con le sonorità già proposte in Angles ma le compatta in un unico sound coeso - e innovativo anche per il genere di cui gli Strokes sono sempre stati portabandiera (quale, vi chiederete? Io lo chiamo genere cazzaro, ubriacone dismesso con i fuochi d'artificio sul finale).
Tenuto nel mistero più assoluto fino a meno di sette mesi fa, questo album è stato da alcuni definito un "aborto spontaneo"; una sorta di auto-escavazione della fossa da parte di questa band; "una merda" su tutti i fronti e altro ancora che non sto qua a riportare. Eppure io lo trovo fantastico non solo perché i The Strokes sono una delle poche band litigiose tra loro ma capaci di portare ancora un po' d'aria fresca tra le dinamiche cementizzate del mainstream e dell'indie più estremo ma anche perché tentano, esplorano, si rinnovano sempre con ironia auto-inflitta. La critica li da per morti e sepolti a ogni nuova produzione post Is This It? E loro rispondono incazzati, mai uguali a loro stessi, sempre indossando il guanto di sfida e con quel sorrisetto stampato in faccia che solo chi, come loro, proviene dal successo consolidato e può permetterselo.
Come non adorare Tap Out, con cui l'album si apre, danzereccia apripista? Welcome To Japan per esempio è troppo simpatica solo per il titolo e l'idea alla base di questo pezzo funziona proprio, con quel suo groove spinto anni '80.
Insomma, quelli che sono stati additati come punti deboli io li considero i loro punti di forza e non perché sono una bastian contrario, ma proprio perché apprezzo le sperimentazioni fatte con gusto e intelligenza.
Ed è proprio il caso di Comedown Machine.

Ascolti consigliati; Tap Out, One Way Trigger (sì, il mostro che ha spaventato i critici di mezzo pianeta!), Welcome To Japan, 80'Comedown Machine, Happy Ending (giusto per ricordare da dove viene questa band), Call It Fate, Call It Karma (vera e grande, piacevole sorpresa dell'album).

post scriptum; finalmente stringo tra le mani la mia copia originale dell'LP (sì, sono ancora uno di quei poveri disgraziati che spende soldi per comprare CD!), e finalmente la apro per andare a curiosare nel booklet prima di iniziare l'ascolto vero e proprio, cosa che faccio sempre perché sono una maniaca del packaging degli album. I miei occhi non ci possono credere quando "svolgo" il booklet e si rendono conto che come al solito, questi cinque sono dei fuori di testa. Ok, la cover non sarà da psycho ma almeno il booklet sì (e io sono contenta).






giovedì 4 aprile 2013

Laura Jansen - "Elba"; un album dedicato alla nostra isola.



Laura Jansen--Elba
voto ** 1/2

Sono indecisa nel definire il genere musicale che quest'artista abbraccia; pop-chic? Cantautorato di nicchia? Elettro-pop? In ogni caso, sia che siate suoi fan o meno, è impossibile negare che la ragazza non sia etichettabile.
Punto a favore.
Che poi non sia particolarmente innovativa e originale, è un altro elemento in evidenza all'analisi.
1 a 1 per me.
In Italia è praticamente sconosciuta non solo radiofonicamente ma anche sulla rete, nei canali più indipendenti e sulle pagine di recensione musicale.
Non sono riuscita a trovare praticamente nulla sul suo conto se non la pagina su "san" Wikipedia che spiega di come la fanciulla sia di origini olandesi ma naturata in America e che da lì sia partita la sua carriera musicale oltre oceanica, grazie alla delicata cover di un brano dei Kings of Leon (Use Somebody, per la cronaca), seguita da un primo album di inediti intitolato Bells.
A Laura piacciono i titoli brevi e quindi eccola tornare quest'anno con Elba, sua seconda fatica composta da undici tracce altalenanti. Qualcosa di buono c'è in fondo, ma affoga dietro a suoni sintetizzati che a mio modestissimo parere, poco o nulla azzeccano con la delicatezza innata in questa fanciulla e ciò che vuole dire.
La prima traccia, The Lighthouse, parte e io penso: "Ohcristogesù, ma che roba è? Tylor Swift in salsa indie?". No, per fortuna e a sprazzi le due si riescono anche a distinguere ma nel complesso, il brano delude le aspettative. Arriva il turno di passare al macero per Queen of Elba brano radio-friendly e tralasciabile; non è malvagio, beninteso che è preferibile - tanto per proseguire con il paragone - a una 22 Swiftiana, ma ancora non ci siamo perché io possa gridare "al miracolo!".
Finalmente cominciamo a ragionare quando inizia il terzo brano, Goldie: è sempre sull'allegro-moderato (!!), ma ha una qualità in salita, più intensa e articolata.
Finalmente vedo la luce in fondo al tunnel quando ascolto A Call To Arms, intensa ballata al pianoforte che nel ritornello prende forza con il featuring di Ed Harcourt ma da sola non basta per spazzare via lo scivolone stilistico del brano che apre l'LP.
Molto graziosa e già più accettabile, una Little Things (You), che cerca di infondere buonumore riuscendoci e che si ispira liberamente alla produzione di Florence&The Machine nel ritornello corale e pomposo.
Anche Same Heart si piazza tra i brani salva-vita che Laura Jansen è riuscita a sfornare per questo album; non un diamante certamente, ma molto più accettabile di brutture come Around The Sun o la cover di Smalltown (Come Home), senza un capo né una coda e senza il minimo cipiglio di originalità. Specie per l'imperdonabile cover dei Bronsky Beat  - Smalltown (Come Home), per l'appunto - a cui come primo epic fail cambia titolo, poi la riduce ai minimi termini in questo rifacimento scombussolato di un capolavoro anni '80 intoccabile se almeno non provi a reinventare un po' e a dare quel qualcosa in più che altrimenti rischia di far passare il brano per una session di prova in studio. Poco impegno e poco onore al pezzo originale.
Già un pochino meglio in chiusura Light Hits The Sun - sperimentale e delicata in giusta misura - insieme al duetto Paper Boats e Pretty Me: la cosa che fa rabbia e ridere al contempo, è che proprio all'undicesima traccia Laura Jansen, pare svegliarsi - ricordandosi chi è e che cosa fa - e crea qualcosa di indimenticabile, che lascia un segno profondo nell'ascoltatore. La ballad Pretty Me è un gioiello in chiusura di un album mediocre, che lascia senza fiato per la dolcezza della melodia e la crudezza delle lyrics: "Two bags, a ticket, a couch in L.A. Nothing left to prove, finally something to say (...)But I got no job, I got no car, no Driver's License, no cash, no savings, no heath care, no furniture, no place to live, no RIA (...)".

Forse la nostrana isola d'Elba, ha ispirato l'artista solo per musicalità del nome perché non colgo gli elementi che possano collegare questo LP con il suo titolo. La discontinuità è presente, alla luce della mia analisi, anche all'interno della tracklist che presenta momenti di bassezza quasi inquietanti a picchi di intelligenza e novità a sprazzi.

Laura, riprovaci con il terzo album, lo aspetterò, lo giuro, ma almeno se ti può aiutare ricomincia scegliendo un titolo un po' più sensato!


Tracklist completa:

  1. The Lighthouse
  2. Queen Of Elba
  3. Goldie
  4. A Call To Arms (ft. Ed Hacourt)
  5. Little Things (You)
  6. Same Heart (ft. Tom Chaplin)
  7. Light Hits The Room
  8. Around The Sun
  9. Smalltown (Come Home)
  10. Paper Boats
  11. Pretty Me

 
 


Hope Valentine.




martedì 2 aprile 2013

The 20/20 Experience - recensione. Justin Timberlake e la nuova calibrazione del genere Funky


JT--The 20/20 Experience (Deluxe Edition)
voto *** e 1/2

"God save the... King of pop!".
Sempre che ne esista ancora uno dopo la prematura dipartita del sovrano supremo, Michael Jackson.
Siamo rimasti orfani, tutti quanti, di un genio incommensurabile che sapeva trarre spunto da tanti generi musicali per poi condensarli in un unico stile personale.
Tutti, ma proprio tutti -  dai tipi più esigenti e indie come gli hipsters, anche se non lo ammetterebbero tanto volentieri, ai rapper neri e pieni di catenone d'oro - rispettavano MJ, come il fenomeno che era.
Cosa è cambiato subito dopo?
Semplicemente per colmare quel vuoto lasciato da Mr. Jackson, siamo stati sommersi da artisti plasticosi che avevano poco da dire, con squadroni di super-produttori alle spalle che si limitavano a fare il compitino e a creare pezzi commerciali, di plastica pure quelli, che hanno inquinato - e continuano a farlo - le nostre povere e sensibili orecchie.
Qual' è allora il metro di giudizio per elevare un'opera comunemente etichettata "pop", a una statura più elevata, meno mainstream, e più accurata, raffinata, elaborata ed eleggibile a nuova pietra miliare? Non esiste. Trattasi di mero giudizio personale.
Tutto questo giro di parole per specificare fin da ora che no - non sono un' amante sfegatata del cosiddetto "pop", eppure ci sono titoli che non possono essere ignorati nemmeno quando hanno una diffusione così popolare e commerciale; perché in alcuni rari casi, non è sinonimo di poca qualità.
E l'ultima fatica di Justin Timberlake - tornato alla ribalta dopo ben sette anni di assenza con il semplice pseudonimo di JT - è uno di questi.
Quando uscì il primo singolo, Suit&Tie evitai di ascoltarlo per intero per non incappare nella tipica curiosità che mi coglie e precede ogni nuova release; ma pochi attimi di ascolto mi fecero capire che Justin aveva nuovamente cambiato rotta rispetto al precedente successo FutureSex/LoveSounds. Per questo presi fiato, mi armai di pazienza e decisi di attendere l'album intero, che non ha tardato ad affacciarsi sul mercato globale.
Ed ora che sono entrata in possesso dell'LP più atteso dell'anno, sono pronta a esprimere il mio giudizio.
Che è a dir poco positivo.
L'album si apre con Pusher Love Girl, dichiarazione d'intenti musicali e tematici; una intro composta da un tappeto melodico d'archi che riporta alle origini della musica. Niente più beat discotecari e ballerecci ma solo la musica e il suo cuore pulsante con un Groove molto anni '70 che fa da ponte tra il passato e l'innovazione e una outro che farebbe muovere anche le pietre. Subito dopo, ecco arrivare il singolo apripista - Suit&Tie - che più Vogue Uomo di così non può fare: il video ufficiale con cui è stato rilasciato, abbinamento sapiente di b/n e immagini che richiamano le atmosfere di un locale di spettacoli anni '30/'40, suggerisce l'accostamento di JT a un modernissimo Frank Sinatra. L'abito elegante, la pettinatura, il cantato pulito solo decisamente più efebico, ne fanno un nuovo pioniere di sexyness e glamour. Impossibile non muovere a ritmo almeno le spalle, anche nel tremendo e inutile tentativo di rimanere impassibili a un simile ritmo.
Don't Hold The Wall, è la nuova versione di JT per ciò che intende con "muoversi a tempo di musica": le mossette da ballerino sicuro del proprio corpo non sono scomparse (lo immagino in sala di registrazione che scossa la testolina impomatata di qua e di là), ma il sound è retrò e accuratissimo nelle sfumature etniche/bolliwoodiane che compongono l'intero pezzo. Lo zampino di Timbaland qui è evidentissimo e superlativo. Strawberry Bubblegum è il brano che mi convince meno per il momento, ma è comunque un ottimo brano tirato sapientemente a lucido che inizia con un'intro decisamente vintage - stile 45 giri che viene posizionato sul grammofono - prosegue sdolcinato fino all'inverosimile e si conclude in modo degno nonostante le lyrics da diabete ("If you be my strawberry bubblegum, I'll be you're blueberry lollypop").
In successione arriva una Tunnel Vision cinematografica in molti sensi; per quanto l'argomento sia di nuovo l'amore della sua vita qui JT non esagera troppo con i romanticismi e riesce a creare un piccolo gioiello in beat ispirandosi al mondo cinematografico con un testo che riprende proprio il linguaggio della cinematografia ("I got a tunnel vision for you"). Devo dire che a un primo ascolto è uno dei brani che mi convince di più insieme a quello in apertura.
Spaceship Coupe; anche questo brano non mi convince particolarmente anche se è forse quello che conserva maggiormente un legame con FutureSex/LoveSounds per sonorità ma proprio per questo è il pezzo che si discosta un po' di più dall'intero LP.
Subito dopo, una intro da vero e proprio locale di spettacoli anni '40, dove il soul e il jazz andavano alla grande ci immerge nel mondo di That Girl: Marvin Gaye, sarebbe stato fiero dell'allievo JT, anche senza averlo mai conosciuto! Riff di chitarra blues che ti si attacca addosso e non ti molla più, sezione di fiati pimpante e coro sopra le righe: chiedereste qualcosa di meglio?
A seguire troviamo la seconda traccia più scatenata dell'album, la pioniera Let The Groove Get In; oltre a essere un chiaro invito a ricevere nella migliore delle predisposizioni questa ultima fatica di Timberlake e soci, è anche l'avanguardia di quelle che saranno le future hit radiofoniche. Non so perché ma sono abbastanza sicura che la sentiremo per radio e sarà forte, e si trascinerà dietro tutti gli artisti plasticosi sopracitati che il talento non sanno nemmeno dove abiti.
La nona traccia è la splendida Mirrors, secondo singolo estratto; vagamente ricollegabile per sound  - i beat sono gli stessi - all'antesignana What goes around... comes around, ne è l'esatto opposto per tematiche. Qui Timberlake e Timbaland - sembra uno scioglilingua - si sbizzarriscono nella creazione di beat in medio-tempo, dalla caratteristica ritmica cadenzata e marcata che ormai è diventata la firma di Timbo. L'intro e l'outro, danno un valore aggiunto al brano senza stranamente appesantirlo ma anzi donando quella varietà che altrimenti non ci sarebbe stata solo con la parte centrale. La conclusione della versione standard di questo LP, viene affidata a una lentissima e molto ambient, Blue Ocean Floor; non so perché ma il titolo mi ha sempre suggerito che si sarebbe trattato di un pezzone lento e introspettivo e le mie aspettative non sono state deluse. Di certo qui Justin scioglie il papillion e si rilassa seduto comodamente, cantando un brano dedicato all'amore della sua vita spezzando finalmente il ritmo serrato tenuto finora.

La versione Deluxe comprende altri due brani; Dress On e Body Count. Entrambi pezzi piuttosto ritmati e sostenuti, il secondo addirittura ricorda vagamente una Like I Love You degli esordi. Comunque, trattasi di brani intelligenti che rimarcano un'ultima volta il genere verso cui JT si è spostato, più funky e soul, e fanno da backfire finale per chi come me ha provato gusto passando in rassegna ogni brano presente in questo LP.

Alla fin fine, il voto che ho messo lassù in cima è anche troppo basso ma mi riservo di riformulare il giudizio finale all'uscita della seconda parte di questo ampio lavoro, che sembra quasi voler ripercorrere tutte le sonorità che hanno composto la carriera di Timberlake.
Come sarà questa misteriosa pt.2? All'avanguardia ma con uno sguardo al passato tanto per continuare sullo stesso concept? Oppure, e lo spero, una nuova sfida e con ritmi più lenti, ancora più classici e puramente funky quasi che questo The 20/20 Experience, sia stata una lunghissima ma curatissima intro alla seconda parte dell'opera?

Hope Valentine.